dr. Marcello Schmid Marescalchi

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Legami che curano: dalle origini alla terapia 

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Noi esseri umani siamo mammiferi e, in quanto tali, la nostra sopravvivenza – sia come individui che come specie – dipende dal repertorio di comportamenti sociali e parentali di cui disponiamo. Attraverso questi comportamenti, inizialmente assicuriamo il soddisfacimento dei bisogni primari del cucciolo e, successivamente, ne modelliamo il comportamento, offrendo le prime esperienze di relazione sociale.

Uno dei pilastri della psicologia moderna, John Bowlby, ha affermato che l’essere umano possiede un bisogno fondamentale e universale: quello di creare legami affettivi. Questo bisogno prende forma a partire dalla relazione con una cosiddetta figura di attaccamento – generalmente la madre, ma non esclusivamente – che oggi possiamo definire caregiver, ovvero colui o colei che si prende cura del bambino.

Bowlby, medico di formazione, ha introdotto una prospettiva rigorosa – evoluzionistica ed etologica – sostenendo che l’attaccamento è un sistema biologico innato che promuove la ricerca di prossimità con una figura di riferimento, perché ciò aumenta le probabilità di sopravvivenza e, in seguito, di riproduzione, contribuendo così alla continuazione della specie.

Per comprendere la fondatezza di questa affermazione, basta osservare le scene di interazione tra cuccioli e madri negli animali, come mostrato nei documentari naturalistici. È infatti logico che un cucciolo – anche umano – indifeso abbia come necessità prioritaria quella di essere protetto da pericoli e condizioni ambientali avverse, ancor prima del bisogno di mangiare o bere. Anche se nella vita moderna questi rischi sono meno frequenti, i meccanismi neurologici di base restano invariati.

Gli studi di Harlow, che dimostrarono come i cuccioli di scimmia preferissero il calore e il contatto alla disponibilità di cibo, rappresentano un punto di partenza fondamentale per le teorie di Bowlby. Questo bisogno biologico è sostenuto da meccanismi neuroendocrini oggi ben conosciuti, che ne confermano anche la validità fisiologica.

Un attaccamento sicuro, come definito da Bowlby, rappresenta la condizione più adattiva e funzionale per una vita sana, sia a livello individuale che collettivo. Questo tipo di attaccamento si sviluppa in presenza di un caregiver disponibile, sensibile e responsivo rispetto ai bisogni del bambino – bisogni che sono sia fisici che emotivi.

Quando questo non avviene – ovvero quando, nonostante una spinta biologica filogeneticamente determinata, il caregiver non risponde in modo adeguato – le conseguenze negative si manifestano rapidamente. E quel che è più allarmante, è che tutto ciò è molto più diffuso di quanto si pensi.

Come possiamo ancora dare credito a certi dettami della vecchia pedagogia o pediatria che invitano a lasciare piangere il bambino, a non prenderlo in braccio, o a non viziarlo? Questi approcci ignorano profondamente la natura biologica e relazionale dell’essere umano.

L’empatia, definita come la capacità di percepire, comprendere e rispondere in modo adeguato alle emozioni dell’altro, è un elemento cruciale della relazione tra bambino e caregiver, soprattutto nelle prime fasi della vita, quando la comunicazione è quasi esclusivamente non verbale.

In questo senso, è inevitabile che quasi tutti noi abbiamo vissuto degli “intoppi” nel nostro percorso di attaccamento e crescita. Basti pensare che, tra i primati, l’essere umano è la specie che richiede il periodo di accudimento più lungo: fino a un ventennio, o anche oltre.

Ma quali sono, esattamente, questi bisogni fondamentali?

Secondo la Psicologia Funzionale, essi comprendono:

Bisogno di nutrimento (non solo cibo), Bisogno di calore (non solo termico), Bisogno di protezione e contenimento, Bisogno di percepire se stessi e l’ambiente (esplorazione), Bisogno di movimento, Bisogno di amare ed essere amati, Sessualità, Bisogno di esprimersi, Bisogno di progettare e conoscere.

A questi, possiamo aggiungere anche il bisogno di riposo, rigenerazione e di lasciare andare.

Quando i nostri caregivers hanno reiteratamente ignorato o frustrato uno o più di questi bisogni, si creano alterazioni funzionali che si riflettono in difficoltà emotive, relazionali, comportamentali e cognitive. Tali difficoltà possono essere evidenti o latenti, e talvolta vengono trasmesse di generazione in generazione: un bambino mal accudito, infatti, può facilmente diventare un adulto incapace di prendersi cura adeguatamente degli altri.

Prendiamo ad esempio l’ossitocina, chiamata anche “ormone dell’amore”: la sua produzione è stimolata dal contatto e dall’interazione sociale (anche attraverso specifiche tecniche terapeutiche Funzionali). L’ossitocina favorisce la formazione dei legami affettivi, stimola la cura materna e contribuisce alla regolazione emotiva. Inoltre, ha effetti ansiolitici, aiutando a superare la paura degli stimoli nuovi.

Al contrario, la deprivazione materna (come dimostrano gli studi sui primati) riduce la produzione di ossitocina, favorisce comportamenti aggressivi e stereotipati e può portare a disregolazione emotiva.

Analogamente, la mancata esperienza di protezione ha un impatto diretto sulla capacità di gestire ansia e paura.

Anche la dopamina, noto neurotrasmettitore coinvolto nei circuiti del piacere, ha un ruolo cruciale nella formazione dei legami affettivi, nella motivazione e nella relazione madre-figlio. Essa modula direttamente il sistema ossitonergico e una sua disfunzione può compromettere seriamente queste funzioni fondamentali.

Solo una terapia che tenga conto di tutto questo può avere un’efficacia profonda e duratura. In questo processo, il terapeuta assume il ruolo di “nuovo genitore”. Empatico, capace di relazione e di dare risposta ai bisogni rimasti insoddisfatti per riattivare i naturali percorsi di sviluppo interrotti.

dr. Marcello Schmid Marescalchi

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